Quel grattacielo nel bosco di Fabio Clerici
Nel precedente libro di Fabio – “Il senso del viaggio” – avevo citato Thomas Moore, il quale ammonisce che il nostro tempo ha la tendenza ad annacquare i particolari della vita in generalizzazioni o astrazioni, le quali però non hanno una gran voce interiore … e continua affermando che spesso si dimentica che qualsiasi “luogo” ha una sua sacralità … Fabio, come tutti i veri poeti, ha il privilegio di scoprire questa sacralità percorrendo itinerari realmente significativi, i “non luoghi” e quelli più misteriosi che sono i viaggi che, attraverso le pieghe dell’interiorità, fanno emergere noi stessi.
“Quel grattacielo nel bosco” – immagine metaforica che caratterizza il pensiero del cittadino metropolitano molto sensibile che vede cambiare la sua Milano e il mondo degli uomini e delle cose giorno per giorno – attraverso i venti racconti – stimola il lettore a “scalare”, “abitare”, “grattare” quel grattacielo che tende verso l’alto, tocca il cielo e lo incita a riconquistare il suo “bosco” perduto.
Il libro coglie gli aspetti più significativi dell’attività umana quotidiana a Milano e nelle altre località descritte e denuncia tutte le problematiche di una società quasi smarrita e impotente: il traffico, l’inquinamento, la nevrosi metropolitana e tutti gli aspetti più degradati per i quali ci si sente indifferenti, indifesi, impoveriti nel vedere tanto sfarzo rappresentato da queste fortezze di vetro. Fabio, preso coscienza del decadimento dei valori educativi e civili e “setacciando” il suo vissuto vive (e li propone al lettore) momenti di dolce nostalgia: “In un tempo in cui la sopravvivenza era rappresentata dal soddisfacimento dei bisogni primari, un piatto di minestra non mancava mai e i vestiti venivano riciclati in relazione allo stato di crescita, non esisteva “il Bosco Verticale” ma si faceva il bagno nel naviglio e i boschi in periferia esistevano davvero”.
La fortezza d’animo e la sensibilità poetica emergono sin dalla scelta del titolo, oltre che dai sottotitoli che il lettore potrà inventarsi: è la somma degli ideali vanamente cullati dal poeta-scrittore e degli aneliti di valori svaniti nel mare dell’indifferenza e del conformismo metropolitano. Leggendo le storie si avvertono delle “lacerazioni” degli obiettivi e dei progetti sognati che si dissolvono in una realtà angosciante, stressante e drammatica: nulla sembra cambiare, ma tutto diviene novità, nuovo …
Fabio, in questo lavoro, si presenta in tutta la sua naturalezza, senza maschere occasionali o travestimenti di facciata e ripete la sua forza morale con la barba disfatta e senza cravatta. Si tratta, anche se non sempre percepibile, di una scrittura di grande impegno civile e morale che porta alla luce situazioni e vicende spesso dimenticate di proposito per non cadere nell’angoscia: “La ragazza assapora il vento salato e la solitudine che accompagna questo luogo di morte insospettata, rievoca con il sapore degli anni trascorsi quel viaggio compiuto dai genitori per riconsegnare una dignità dovuta, indebitamente violentata nel nome di ideali precari …”.
Le storie raccontate, come affermato nella prefazione, si muovono “fra scenari veristici e finzione favolistica”, ma fin dall’inizio si ha la sensazione che l’autore abbia il desiderio di parlare, di raccontarsi, di raccontare un po’ della propria vita, delle esperienze vissute, dei progetti; e tutto questo per dare un senso alla sua esistenza certamente realizzata e forse per liberarsi di un fardello … Credo, tuttavia, che Fabio, attraverso la scrittura, voglia scoprire e far emergere quel profondo tesoro interiore che tutti dovremmo custodire per fornire all’anima il nutrimento per accedere a territori alternativi, più veri e sinceri, prendendo congedo dalle contrade della meschinità, della mediocrità e ripetitività della vita quotidiana. Lo scopo della nostra vita dovrebbe essere quello di maturare vivacità e creatività intellettuale e autonomia critica. Allo scopo, conosco la tenacia con la quale Fabio affronta il lavoro della scrittura e mi piace citare questo pensiero di G. Corianò che afferma: “Scrivere è una montagna da scalare o una voragine da scavare con le proprie mani; scrivere è l’atto di fede di chi venera il dubbio e rifuggire dalle certezza; scrivere è amare ad amarsi, fermare l’attimo, scoprire che l’altro sei tu e l’oltre ti è accanto”.
In alcune parti l’autore s’ispira ai vissuti familiari, ai valori affettivi e lo stile perde il carattere crudo e graffiante della denuncia larvata e spinta in alcuni punti per addolcirsi in un velo di nostalgia, di dolce nostalgia e rimpianto che le figure evocate portano in sé. Il libro, in generale, è capace di restituirci una visione precisa di tanti aspetti trascurati dalla realtà e dentro il mondo che ci circonda, poiché il momento della scrittura rappresenta sempre uno strumento valido per raggiungere un contatto diretto, intimo, sincero con la propria interiorità, con il proprio io interiore.
D’altronde l’obiettivo di Fabio e dello scrittore, in generale, credo sia quello di far riflettere sullo stato della nostra esistenza, di suggerire e di accettare i cambiamenti e ciò che compete a noi di cambiare per vivere e realizzare i nostri progetti e sogni. Non posso definire il libro una semplice autobiografia, perché è realizzato per descrivere luoghi e storie complesse con tanti personaggi che si destreggiano alla ricerca di una loro identità. Tuttavia, l’autore, scavando nella memoria, attraverso la parola (lui essendo poeta conosce bene la magia e il mistero della parola) sfida i suoi “fantasmi”, il suo passato e le contraddizioni della vita e sicuro di se, certo di potersi mostrare in prima persona, in piena luce non solo rende tutto ciò “domestico” (nel senso che sono i nostri fantasmi), ma conferisce loro il compito di comunicare le ragioni che stanno alla base della propria individualità.
Quel processo dinamico delle proprie esperienze realizzate e vissute, quel processo della propria maturazione personale che evolve nella scrittura autobiografica, che ha potere di far rivivere gli istanti delle storie e dei fatti in modo del tutto diverso di come sono accaduti, diviene pensiero autobiografico.
Qualcuno definisce il processo della scrittura autobiografica una sorta di “ecologia della mente” che è un’interessane definizione, perché davvero, nel momento in cui la penna comincia a scorrere sul foglio – fosse anche la penna telematica – si mette in moto un nuovo meccanismo, difficile all’inizio ma liberatorio, catartico e “purificante”, attraverso il quale i pensieri corrono per ogni dove senza barriere logico-temporali, velandosi e ammantandosi anche, con sorpresa dello stesso scrivente, di significati diversi, intricanti e inattesi. Questo processo è dovuto al fatto che emergendo le storie positive o negative, tristi o gioiose l’io narratore diviene per presto un “io tessitore”, così gli istanti riappaiono alla memoria nelle circostanze più impensabili: uno alla volta con umore diverso. Ora, dobbiamo intercettare questo io e se ci rifiutiamo di dare ascolto ai nostri ricordi, se abbiamo paura di ricordare, se odiamo scrivere di noi, la vita sarà di certo più comoda e sicura, ma più ripetitiva, insincera e monotona.
I racconti del libro si snodano fluidi in capitoli brevi, fruibili, in una prosa con intonazioni poetiche, in un ondeggiante passato e presente, in un ansimante malinconia e rimpianto, in un andirivieni della memoria, in un tempo dell’anima, che prescinde dalle coordinate temporali, perché quanto ha inciso profondamente la vita resta impresso e pregna la nostra anima: istanti e storie ricordate come tanti fotogrammi, come tessere di un mosaico esistenziale fantastico e vissuto, che può essere messo in versi:
“Il cammino fu lento e cadenzato,
con la nostalgia di varcare il confine
fra l’immaginario
e ciò che rappresentava la vita reale;
la ripresa dell’osservazione di una natura
in tempo di pace, le voci dei …”.
Il nostro autore possiede un’altra qualità: pensare poeticamente. Così egli ricorda e annota, sosta e indugia sui sogni realizzati (o non realizzati) e sulle utopie, sulle sue passioni, sensazioni, emozioni. Tuttavia, costruire tutto ciò, attraverso la scrittura, significa conservare zone feconde di “immaturità” (e che vita sarebbe se fossimo perfetti …) dentro di noi che ci permettono di edificare il nostro “castello” di esperienze e di conoscenze che ci permettono di rapportarci con il nostro “abitatore interiore”.
A volte, non si sa come, quando e perché, ma c’è un momento, nel corso della vita, in cui si sente il bisogno di raccontarsi o, per quelli dotati di una certa sensibilità, di esprimere passioni, sentimenti ed emozioni in prima persona quanto si è vissuto e di resistere all’oblio della memoria. Certamente è una forte sensazione (si sente il bisogno e basta!) e più ancora che un progetto, è un messaggio che ci raggiunge all’improvviso, sottile e poetico che spesso diviene quasi un’urgenza o un’emergenza, un dovere o un diritto, a seconda dei casi e delle circostanze: è il pensiero autobiografico.
Alcuni racconti del libro mettono in luce le contraddizioni della vita vissuta nella sua piatta quotidianità, un profilo complesso e affascinante che impersonifica la personalità dell’autore, un libro esistenziale che, tramato di gioia e di umane sofferenze, di rinunce e di improvvisi lampi di felicità e vitalità coinvolge il lettore nell’infinita commedia umana.
Lo scrivere di Fabio, appunto, non è un desiderio intimistico qualsiasi, riguardante se stesso e riferito al solo piacere di parlare di sé, fra sé e sé, a se stessi o alla necessità di ritrovare qualche sperduto ricordo in funzione di una conversazione con altri.
Il pensiero autobiografico, quell’insieme di ricordi della propria vita trascorsa, di ciò che si è stati e si è fatto, è una preziosa presenza che da un certo momento in poi accompagna il resto della nostra vita e anche laddove si volga verso un passato doloroso di errori e di occasioni perdute o mancate, è pur sempre una riconciliazione, un ripatteggiamento che procura allo scrivente certamente disagio e turbamento, ma che diventa presto serenità, armonia e quiete interiore. Come scrive Proust, la scrittura deve disfare ciò che è stato costruito dalla ragione, dalle abitudini, dall’amor proprio, dallo spirito d’imitazione, e deve far compiere il cammino opposto, cioè tornare alle profondità, là dove è sepolta la verità a noi sconosciuta.
Ora, anche se quel guardare alla propria esistenza come spettatore imparziale potrebbe apparire come un’operazione impietosa e severa, giova alla nostra serenità, poiché quello scrivere di noi stessi pagina dopo pagina (con il tempo che scorre) fa emergere due sentimenti quasi dimenticati: la compassione e la malinconia che, mitigando la nostra soggettività e il nostro egoismo, aprono altri orizzonti e scenari: sentimenti che ci permettono di conoscere e svelarci istanti affettivi ed emotivi sconosciuti e soprattutto consentono di condividere l’essere al mondo di tutti gli altri e con tutti gli altri. Chi scrive prende coscienza che non è solo al mondo con le sue traversie positive o negative: lo stare nella quotidianità è cosa difficile e lo dimostra quel “grattacielo nel bosco” (tanto amato e ammirato dai milanesi che ne sono orgogliosi e gelosi) che si allontana sempre di più dai comuni mortali … e quel bosco che si infittisce di ragnatele di diseguaglianze, di erbacce, di un futuro d’incertezze …
Il libro è ben strutturato: ricco di intuizioni e di immagini e di piacevole lettura non necessita di riflessioni sulle storie raccontate e sulle descrizioni dei luoghi, poiché conosco bene la bravura di Fabio nel comporre questi esercizi che spesso si fondono con la poesia. La terra, la “grande Milano”, il progresso, il lavoro quotidiano ispirano storie diverse nei temi, ma complementari a tessere la storia infinita dell’umanità nella lucida consapevolezza delle disarmonie del presente.
Un libro da leggere, da leggere senza fermarsi un istante, un libro nel quale il lettore troverà tanto di se stesso e che ha il pregio di possedere connotazioni a tratti di una semplicità e di una sincerità sconcertanti che fanno fermare a pensare, riflettere e meditare. Non si tratta di una voce dotta e cattedratica, ma di una voce di un’anima onesta (una qualità questa in disuso ai nostri giorni) che affronta con coraggio la difficile esistenza in una metropoli che ha perso la sua dignità, la sacralità e la sua identità, in una Milano dove anche i suoi abitanti vacillano a trovare un senso d’identità storica-culturale e dove il tempo “gira” confuso, aleatorio …
Hugo Salvatore Esposito (Agosto 2016)